domenica 18 settembre 2022

Ecco l'Ararat e poi l'ultimo, superlativo, tratto in Turchia.

Svegliatici ad Agri, corriamo poi veloci verso il confine iraniano, a Dogubayazit dove vogliamo vedere lo splendido castello di Ishak Pascia. Percorsi nemmeno cento chilometri nella steppa desertica che ci accompagna da Dagi Nemrut in poi ecco che, imponente e ieratico, appare avanti a noi il monte Ararat. Alcune nubi avvolgono la sua vetta ma si vede comunque la grande calotta di neve che ammanta la cima. I suoi 5137 Mt. sembrano anche di più perché l'Ararat (o Agri Dagi come lo chiamano i turchi) si stacca imperioso e netto dall'altipiano, senza quasi alcun rilievo attiguo capace di rubargli la scena. Per  tutte le popolazioni e religioni che crebbero alle sue pendici, questa montagna ha inevitabilmente assunto un ruolo sacro; nelle sue sommità non può non risiedere ciò che di più intimo e profondo alberga nell'animo umano. Pure per noi è così, l'emozione di vederlo (per alcuni di ri-vederlo) è davvero tanta e si sprecano le foto da ogni angolazione possibile. La mattinata termina con la visita al Castello che Ishak Pascia fece costruire su di uno sperone di roccia che domina la città e fronteggia l'Agri Dagi. Il caldo opprimente ed il lunghissimo percorso che ci attende  verso  nord, al confine turco georgiano, ci impongono però di non fermarci oltre.
Nel mentre aggiriamo in direzione nord ovest le pendici del gigante montuoso non possiamo non pensare all'Armenia che è ad appena dieci km in linea d'aria, proprio sul versante opposto. Le liti umane però (nella specie i pessimi rapporti tra armeni e turchi, con i secondi che  mai hanno ammesso l'effettivo e sistematico genocidio dei primi ad inizio 900) lasciano chiuse le frontiere tra i due stati. Dobbiamo quindi arrivare in Georgia e solo da qui, potremo poi riscendere a sud verso l'Ararat e l'Armenia. L'intero percorso fino al confine ci svela un paesaggio superlativo: la Turchia nel suo estremo margine a nord est ricorda moltissimo la Mongolia. La natura domina imperiosa senza troppe tracce antropiche; la steppa brulla si stende, come un morbido manto di velluto color lontra, sulla pianura e sui rilievi. Sul fondo l'acqua scava nel terreno dei minuscoli canyon, che evidenziano nettamente il percorso, grasso e sinuoso pitone che si srotola nel terreno. La presenza dell'acqua si segnala, oltre che per queste nette fenditure, pure per  l'erba che cresce, verde e sfavillante, nelle zone umide. Tutto intorno pascolano greggi di mucche, pecore e capre. Nel cielo azzurro alcuni rapaci veleggiano lenti, magari alla ricerca di una preda ma pure, almeno così ci piace pensare, per godersi questo splendore. Per quasi 400 km questo è quanto abbiamo quindi fatto noi, goderci il paesaggio intendo, che certo di prede non ne abbiamo cercate. Per la verità una piccola ricerca, con pure un po' di ansia, l'abbiamo fatta, perché i rari distributori non avevano benzina da darci. Fortunatamente, poco prima dell'ultima goccia utile nel serbatoio,  troviamo finalmente il carburante. La sera si arriva alla fine dell'interminabile Turchia. Le operazioni in frontiera ci fan perdere circa 3 ore, con uno spiacevole tentativo di spillarci soldi per inesistenti illeciti. Entriamo in Georgia solo verso le 22 con buio pesto. Ciao Turchia, ti ricorderemo cmq con grande piacere, paesaggi magnifici e strade sempre superlative, gente ospitale anche se chiusa e taciturna. Certo non rimpiangeremo invece la tua cucina con ottime componenti ma scarsissima  fantasia: la monotonia uccide anche le cose migliori. 

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